giovedì, Maggio 9, 2024

Oltre la Scienza? Una riflessione su ambiente, scienza, etica e religione

di Ernesto Cesarini e Simone Potenti

Gli innegabili effetti positivi della ricerca scientifica, riversata in innovazioni tecnologiche, metodiche in area biomedica o in tante altre ricadute efficaci e utili, dimostrano che il tandem scienza-tecnica, frutto della cultura occidentale, è capace di persuadere culture altre a farlo proprio per la sua efficacia e utilità. Il metodo scientifico galileiano si applica in tutte le università del mondo ed è un potente strumento di globalizzazione e di una conseguente omogeneizzazione culturale.

È evidente però che molti dei mali strutturali del pianeta sono in buona misura, direttamente o indirettamente, l’esito della tecnica e questo non può non interrogare la comunità scientifica e chiunque sia in grado di affrontare criticamente la questione della responsabilità degli scienziati. Centrale è il tema di quale etica sottendere all’agire dello scienziato: etica delle intenzioni o etica della responsabilità? Senza trascurare che l’azione dello scienziato non è immune dalla volontà di potenza che lo spinge a cercare il successo anche a fronte di rischi incalcolabili.

Sono esemplificativi al riguardo i 15.000 ordigni nucleari distribuiti negli arsenali di 9 paesi,

2.000 dei quali in stato di massima allerta, pronte all’impiego in pochi minuti. La paternità di quelle bombe è degli scienziati del Progetto Manhattan, ben consapevoli della potenza distruttrice delle bombe atomiche. L’uso del loro lavoro, che dopo Hiroshima e Nagasaki ha generato gli arsenali nucleari attuali, si collocava all’esterno dell’orizzonte etico entro cui agivano, perché per loro valeva l’etica delle intenzioni. Per quanto riguarda la volontà di potenza è emblematico quanto accadde quando venne testata la prima bomba H, realizzata dallo stesso gruppo del progetto Manhattan, condotto nonostante fosse stata ipotizzata la concreta possibilità di effetti imprevedibili a grande scala.

I mali strutturali del pianeta, effetto indesiderato della compulsiva continua innovazione scientifico-tecnica che si verifica in ogni campo, sembrano un prodotto anonimo e casuale, di cui nessuno si assume la paternità. Ma è sufficiente attribuire tutto alla mancanza di un’etica della responsabilità degli scienziati o alla loro volontà di potenza? O c’è dell’altro?

Quei mali strutturali si configurano per lo più come trasformazione di una situazione originaria, che fino ad un tempo relativamente recente si trovava in equilibrio “naturale”, in una situazione nuova con la natura modificata, talvolta fino alla sua devastazione, o attivamente, perché si tratta di una trasformazione desiderata, oppure come effetto involontario. Comunque vada I risultati non cambiano: il vivente soffre.

Se proviamo a destrutturare i processi che determinano i mali del pianeta, chiedendoci dove nascano le criticità, dovremmo inevitabilmente porci domande che iniziano con “perché” e riflessioni che iniziano con “se”, senza limitarci a quelle che iniziano con “come”, “quale” e “quanto”.

Scienza e tecnica non rappresentano lo spazio d’azione di individui che si trasmettono il testimone l’uno all’altro ma sono un prodotto sociale di un lavoro sociale: il laboratorio dove lo scienziato conduce le sue ricerche e i dispositivi che usa sono un resto collettivo: la responsabilità sugli esiti pertanto riguarda tutti e va indagata in un tempo lungo che non corrisponde al tempo di vita di un individuo.

Quali strutture di pensiero supportano la irrefrenabile corsa del binomio scienza-tecnica verso la continua innovazione e quali di queste strutture potrebbero avere un ruolo sugli effetti indesiderati, talmente rilevanti da assumere il carattere di crisi globali?

Parliamo di un orizzonte di senso e le considerazioni da fare toccano in profondità il nostro essere al mondo e le relazioni tra noi e il mondo.

Possiamo datare l’inizio di una visione distorta – “suffragata” dalla scienza – della realtà sociale con la pubblicazione del saggio “L’origine delle specie” di Charles Darwin, nel 1859. In questo saggio di fondamentale importanza fu introdotto il concetto di selezione naturale, che ormai,

dopo più di 150 di ricerche, sappiamo essere un principio che domina molti aspetti dell’universo, dalla selezione in senso biologico, fino a quella in senso molecolare, che quasi sicuramente ha determinato l’evoluzione della vita dalla non vita (teoria dell’abiogenesi) sul nostro pianeta (e probabilmente su tutti quei pianeti che hanno le condizioni ottimali per l’emergere della vita).

Ebbene, una delle prime semplificazioni della teoria di Darwin consiste nel cosiddetto darwinismo sociale, secondo il quale anche la società, con le sue gerarchie e divisioni in classi sociali, è la chiara manifestazione di come i meccanismi alla base dei processi di selezione naturale siano sostanzialmente all’opera anche nell’evoluzione sociale. Incuriosisce il fatto che questa lettura sia stata data da coloro che conducevano vite dignitose, una lettura che permetteva loro di vivere sogni tranquilli “perché è così che funziona il mondo”, ma sicuramente gli sfruttati e i poveri non erano dello stesso avviso. Questa lettura dell’opera di Darwin, a distanza di oltre 150 anni, è ancora molto presente, e, in forme meno esplicite, è alla base dei grandi conflitti che insanguinano il mondo.

Ma chiaramente questa visione della società fa riferimento a scale temporali che sono decisamente riduttive rispetto a quelle indicate da Darwin nella sua opera, e si può senza dubbio affermare che né gli status quo duraturi né i cambiamenti troppo rapidi nella società sono manifestazione di un qualche “principio di giustizia” scientifico. Il mondo vivente è per definizione fluido, e anche la migliore condizione per tutti (in senso lato, includendo tutto il vivente) non può essere considerata come stabile senza sforzo. Anche un individuo perfettamente sano è continuamente sottoposto all’attacco da parte di patogeni che vengono silenziosamente arginati e tenuti a bada dal sistema immunitario.

Scienza e tecnica, anche quando finanziate pubblicamente, sono attualmente sottoposte alle enormi pressioni del mercato, che è stato quasi unanimemente eletto come unico giudice dell’evoluzione sociale. Proprio la scienza, accettando questo stato di cose, non fa altro che negare se stessa e le sue vette più elevate. Siamo ormai arrivati a una conoscenza della realtà tale per cui abbiamo la capacità di stimare molto accuratamente la traiettoria della nostra civiltà, e sempre più parametri ci dicono che ci stiamo avvicinando a grandi passi a un terribile collo di bottiglia. Nel momento in cui scienza e tecnica non si sono opposte ai meccanismi di mercato hanno tradito se stesse, hanno dichiarato guerra ai loro stessi principi. Ma c’è un “mercato” ben più severo di quello finanziario, ed è il mercato della Fisica, dove non si fanno sconti, e la Termodinamica sarà severa giudice delle nostre azioni. L’hanno capito bene intellettuali come Enzo Tiezzi e Giorgio Nebbia.

E un’altra battaglia insensata in cui si sono imbarcate scienza e tecnica nel nostro mondo capitalista è quella che le contrappone ideologicamente alla sfera umanistica. Sono ancora troppo pochi gli scienziati che vogliono (o, pur volendo, sono messi nelle condizioni di) interfacciarsi anche con le discipline umanistiche. Il premio Nobel Ilya Prigogine aveva insistito in questa direzione, riflettendo su come le manifestazioni umanistiche non siano altro che proprietà emergenti di sistemi complessi quali possono essere gli esseri umani, e nella loro diversità non sono altro che la più alta manifestazione della potenza creatrice che si sprigiona in quelle condizioni lontane dall’equilibrio, cioè tipiche di tutti quei sistemi immersi in un continuo flusso di energia (un pianeta intorno a una stella ne è il tipico esempio).

Una visione “olistica” del nostro mondo è quello che serve per una più chiara comprensione di dove stiamo andando. In questa visione, anche scientificamente, dovrebbe essere chiaro che nessuna delle future conquiste scientifiche e tecniche può davvero essere considerata parte di

un progresso umano se prima non saranno risolti i grandi problemi dell’umanità, la cui soluzione richiede una consapevolezza diffusa e condivisa che oggi chiaramente non è la norma, e, anzi, è sistematicamente osteggiata. Come possono gli scienziati dormire sogni tranquilli quando 800 milioni di persone nel mondo muoiono di stenti? Come possiamo pensare che sia così importante trovare un vaccino per i tumori, forse per morire a 90 anni invece che a 80, quando non ovunque sono garantite le condizioni minime per abbattere la mortalità infantile? Come possiamo far finta che non incomba su di noi lo spettro dell’olocausto atomico?

Allo stesso tempo, può esserci la tentazione, da parte dei più fatalisti, di dire che individualmente non si può fare molto; quindi, tanto vale che ciascuno tiri a campare come può, cercando di rendere migliore quella sfera ecologica che ciascuno ritiene possa influenzarlo direttamente. Ma nelle nozioni da includere nella consapevolezza diffusa menzionata precedentemente, c’è proprio l’evidente interconnessione globale tra gli aspetti anche più disparati.

Il Pianeta Terra è un sistema complesso, e né il nichilismo né il riduzionismo ci aiuteranno ad andare avanti consapevolmente. In questo, anche le religioni si inseriscono in un tessuto umanistico fondamentale, non tanto per dirimere la questione dell’esistenza di Dio e della vita dopo la morte, ma piuttosto per la coltivazione della cultura del dubbio.

In effetti, per dirla anche alla Prigogine, anche le religioni e il loro messaggio non sono altro che altre manifestazioni di quante varietà e complessità possano emergere dalla semplicità. Costruire il complesso è difficile, mantenerlo e migliorarlo ancora di più, distruggerlo è facile e (forse proprio per questo) stupido.

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