lunedì, Maggio 6, 2024

Linguaggio inclusivo, intervista a Vera Gheno, autrice di “Parole d’altro genere”

di Andrea Mori

PRATO – Vera Gheno è una sociolinguista. Dal 1999 al 2019 ha collaborato con l’Accademia della Crusca e dal 2018 al 2021 con la casa editrice Zanichelli. Da settembre 2021 è ricercatrice di tipo A presso l’Università degli Studi di Firenze. In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, ci ha concesso una intervista a tutto tondo, compresa la questione del linguaggio inclusivo, di cui la dottoressa Gheno è profonda conoscitrice. 

Vera Gheno

Dottoressa Gheno, il 7 marzo è uscito il suo ultimo libro Parole d’altro genere (Rizzoli). Cosa avrà il lettore tra le mani? 

Un percorso cronologico tra 42 brani di 42 autrici, da Saffo a Giovanna Cristina Vivinetto; per ogni brano, una mia trattazione di una parola chiave che riguarda l’autrice o il brano e la storia dell’emancipazione femminile; in fondo a ogni mio testo introduttivo, un consiglio di lettura per approfondire il tema: sono quasi tutti saggi contemporanei, scritti da donne, con qualche eccezione. 

Cos’è che l’ha spinta a scrivere Parole d’altro genere? 

L’idea è stata della mia editrix in BUR, Caterina Campanini: l’idea iniziale è stata sua, e all’inizio ci ho messo un po’ a “vedere” il libro, nel senso che lo sentivo come un tema un po’ lontano dalle cose di cui scrivo solitamente. La spinta, poi, l’hanno data due cose diverse: il riprendere in mano la mia antologia delle superiori e scoprire che c’erano solo 12 scrittrici su 160 “penne” (e soprattutto, rendermi conto che all’epoca mi era sembrato normale), e il mettermi a leggere questi brani del passato scoprendo che ognuna delle autrici aveva tanto, tantissimo da raccontarmi, anche su me stessa e sul mio tempo. 

In base anche al suo vissuto personale (passato come presente), a che punto siamo oggi in Italia con la possibilità che viene data alle donne di parlare? E quando parlano, sono considerate autorevoli tanto quanto gli uomini? 

Oggi, perlomeno, non c’è quasi nessuna legge che discrimini specificamente le donne (avrei da ridire sul divieto solo femminile di risposarsi per 300 giorni dopo la finalizzazione del divorzio, giusto per fare un esempio), ma la discriminazione c’è, eccome, magari in forma meno esplicita e meno strutturata. Io lo vivo sulla mia pelle: sugli argomenti che studio, faccio tuttora fatica a venire considerata competente. Abbastanza spesso mi succede che, invece di ribattere nel merito, sul mio conto si facciano affermazioni generiche che fanno intendere che sì, insomma, non è che io abbia chissà quale competenza a parlare di certi temi. Ancora oggi, troppo spesso, una donna assertiva viene bollata come aggressiva. Moltissime mie amiche e colleghe possono testimoniare di quanto spesso succeda. 

Molti dei suoi interventi sui giornali riguardano il sessismo e l’inclusività nella lingua italiana. Allora le chiedo: la lingua italiana è maschilista? E se si, renderla “più femminista” significherebbe davvero dare un contributo importante al raggiungimento della parità di genere? 

Vera Gheno

Non è la lingua italiana a essere sessista (più che maschilista), ma soprattutto il suo uso. Le strutture, di per sé, sono semplice conseguenza della storia sociale e culturale, sono figlie del contesto in cui sono nate e si sono formate. Come potrebbe una cultura androcentrica, di stampo patriarcale, avere prodotto una lingua con una struttura differente da quella che esperiamo quotidianamente (nella quale il maschile è il “normale”, la forma base)? Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, osservo solo che nominare le cose permette di parlarne, e parlarne permette di abituarsi alla loro presenza nel nostro “orizzonte mentale”. Quindi sì, io penso che si possano innescare dei circoli virtuosi tra parole e realtà e tra realtà e parole, anche se non ripongo nessuna fiducia nel mero lavoro a livello linguistico. Abbiamo bisogno che le cose si muovano armonicamente. Se pensiamo che cambiare le parole sia sufficiente, assegniamo a esse un valore magico che di per sé non hanno e si finisce per fare delle operazioni di mero qualcosa-washing. Realtà e parole devono rimanere intrecciati tra di loro, i piani non vanno separati. 

All’interno di una parte del mondo maschile c’è la tendenza a prendersi gioco delle femministe più “agguerrite”, ignorando di fatto ciò che dicono. Chi è che commette l’errore: queste ultime col loro atteggiamento, oppure il problema è precedente, e cioè che i media portano all’attenzione del grande pubblico spesso e volentieri personaggi “particolari” buoni per l’audience? 

Non penso che le rivolte si possano fare con i guanti bianchi; a volte ci vuole dissenso violento, e la rabbia va compresa, perché fa parte del “gioco”. C’è un bel libro di Sarah Schulman che consiglio di leggere, si chiama “Il conflitto non è abuso”: una lettura utile per riconoscere certe dinamiche di potere, come quella di definire “esagerate” le istanze di chi si arrabbia (ma questo giudizio arriva, in maniera non sorprendente, da chi “sta sopra”, da chi vede sfidato il proprio potere), o di giudicare la forma del dissenso piuttosto che il suo contenuto. Quest’ultima dinamica in inglese ha un nome, “tone policing”, che vuol dire “fare la polizia del tono”. Si devia il discorso dalla sostanza alla forma, e ci si mette a discettare su quella, dimenticando che il punto della questione sta altrove. Per cui no, non penso che alcune femministe facciano male a essere agguerrite. Sulla tendenza dei mass media a spettacolarizzare e polarizzare tutto, come se ogni questione dovesse essere affrontata a mo’ di fossa dei leoni, preferisco soprassedere: viviamo nell’epoca dell’estremizzazione perenne. Sinceramente, penso che i mezzi di comunicazione di massa potrebbero fare un lavoro più attento per evitare di creare questa perenne necessità di schierarsi in maniera apodittica. 

In un’intervista per Exagere, ha dichiarato che «In una società basata sulla parola, chi è privo di un nome non dico che non esista, ma sicuramente “esiste meno”, è meno visibile; a livello linguistico e sociale. Il che, secondo me, aiuta a comprendere le rivendicazioni linguistiche delle minoranze a oggi marginalizzate, la richiesta di venire chiamate in un certo modo e non in un altro». Ciò che dice ha senz’altro senso, tuttavia non crede che la creazione “a raffica” di nomi per identificare minoranze possa portare con se un po’ di confusione? 

Confusione a chi? Chissà come mai, questo tipo di osservazioni è sempre fatto da persone che non hanno mai “subìto” le parole, che non hanno mai sentito il peso dato dall’impossibilità di definirsi. Allora, diciamoci le cose come stanno: a una parte della società tutto il lavorio linguistico appare inutile perché non serve direttamente a loro; a quel punto, si tirano fuori cose come “eh ma ci sono troppe parole…”, come se poi noi usassimo tutte le parole esistenti, sempre. Ogni persona usa ciò che le serve, e anche a livello di gestione della relazione con l’alterità, non incontriamo tutte le differenze in contemporanea. Ogni soggetto ha a che fare con qualche particolare categoria di esseri umani: anziani, queer, disabili, neurodivergenti, razzializzati, con corpi non conformi, poveri… E avrà sicuramente una certa attenzione linguistica nei confronti di quei determinati gruppi con i quali si relaziona. Semplicemente, si tratta di avere una postura mentale di generalizzata attenzione per i bisogni linguistici altrui. Si tratta di aumentare il numero di scelte linguistiche possibili, non di costringere le persone a esprimersi in un modo piuttosto che in un altro. Qualcuno si preoccupa del fatto che Pantone “battezzi” una nuova sfumatura di colore ogni anno? Abbiamo mai sentito qualcuno dire “Ora basta creare nuovi colori, perché poi si fa confusione”? 

Lei si è molto occupata di “schwa”. Molti, forse perché non hanno le competenze per andare più a fondo, etichettano questo segno come esteticamente sgradevole (cosa che fanno anche per quanto riguarda l’asterisco). Secondo altri, invece, la schwa non andrebbe adottata poiché comporterebbe una difficoltà per il lettore/parlante col suo utilizzo. Come stanno le cose? 

Sull’estetica, non posso che dire che è un parametro molto personale, un po’ come i nomi. Ho chiamato mia figlia Eva e non che so, Annamaria, perché mi piacciono i nomi brevi. Ma non mi viene certo da dire che Annamaria sia cacofonico o esteticamente brutto. Per quanto riguarda la questione della difficoltà, certo che qualsiasi soluzione deviante dalla norma ne pone: non occorre essere dislessici per annodarsi davanti a un termine tedesco extralungo, tipo Rechtsschutzversicherungsgesellschaften. Lo schwa è vissuto giustamente come un corpo estraneo all’italiano, quale effettivamente è. Ma io non penso che debba diventare norma; al momento, il suo scopo è proprio quello di costringere chi legge a bloccarsi per un attimo e riflettere sul motivo per cui in mezzo al testo sia comparso quel simbolo strano. Lo schwa, per me, è un simbolo, e ne apprezzo l’uso simbolico. Dopodiché penso che la nostra concezione del sesso e del genere degli esseri umani stia cambiando in maniera irreversibile, e che le generazioni a venire troveranno modo per “riallineare” la lingua con questo nuovo stato di cose. Intanto, lo schwa espone, fa vedere, irrita: esattamente quello che deve fare.

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